mercoledì, ottobre 07, 2015

Il desiderio di essere come tutti: Rapimento Moro - 2

Segue da Il desiderio di essere come tutti: Rapimento Moro - 1

Nel mio primo articoletto sul libro di Francesco Piccolo ho scritto di alcuni paralleli tra la formazione e le esperienze di Francesco Piccolo e le mie. Un'altra similitudine l'ho trovata in alcune delle sensazioni suscitate dalla scrittura che sono incluse nello stralcio che riporto di seguito.

In quel momento, pur avendo creduto di essere diverso, il mio unico desiderio era di essere come tutti. Come mio padre e mia madre, come i vicini, come quelli che parlavano al telegiornale. Come zio Nino. Come zia Rosa.
Ecco, fu lei la prima luce di conforto. Quando torna a casa, e davanti al portone: il suo sgomento assomigliava al mio, ed era più consapevole, deciso, indignato. E infatti il PCI, i sindacati, le persone che scesero subito in piazza, vennero tutti in soccorso della mia estraneità.
[...]
E poi, giorno dopo giorno, vediamo che la tristezza di Elena crescere, i suoi dubbi crescere. E la paura di quello che stava succedendo, e quel sorriso strano per fortuna se ne andò. Tanto mi innamoravo, in silenzio. O capivo di essere innamorato.
La mia passione politica stava nascendo in modo incontrastabile, e vivo [...] ero un ragazzo un po' ricco, un po' nullafacente, che si interessava alle cose in modo confuso e superficiale, e passava gran parte del suo tempo insieme ad amici un po' stupidi e nullafacenti come lui. E, andavo alle feste, quante più feste possibili. Era questa la mia vita in quegli anni: la naturale in compagnia degli amici, la mia famiglia, il parco residenziale in cui vivevo. E, il la tensione verso il Movimento, perché comunista. È questo che vidi anche in Robert Redford di "Come eravamo". Quindi, poiché questo ragazzo un po' stupido con gli amici un po' stupidi voleva fare lo scrittore, allora anch'io decisi che volevo fare lo scrittore: era il modo di conquistare Barbara Streisand [...] e mi misi a scrivere un romanzo che racconta di un ragazzo che ama la sua compagna di banco e soffre tantissimo perché lei non lo ama. Il romanzo era brutto e sì è fermato dopo alcuni capitoli, scritti in modo faticosissimo. Però in quel tempo in cui mi chiudevo in camera e scrivevo, nonostante lì fuori ci fossero i miei amici, le feste, le ragazze, e anche Elena, il Movimento; nonostante scrivere fosse molto faticoso e non produceva nulla di buono mi sentivo felice. [...] Avevo la percezione chiara che stavo scrivendo un romanzo brutto e inutile, ma andavo avanti perché in qualche modo leniva il mio dolore e perché quel tempo di scrittura era una vera sostanza di felicità. E mi dava la sensazione che non stavo buttando la mia vita. Con i miei amici avevo la sensazione di buttare la mia vita; con Elena no, ma lei non mi voleva; con il Movimento no ma non avevo abbastanza coraggio per essere come loro. Quindi, l'unico momento in cui davvero potevo sentire di non stare buttando la mia vita, era mentre scrivevo questo romanzo brutto, cosciente che fosse brutto. E forse anche l'atto di scrivere rendeva sopportabile il dolore che provavo, le pene che provavo. In fondo, mi dicevo che se soffrivo potevo poi scriverne, e quindi incanalavo la sofferenza dentro qualcosa.
...
Continua...

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